I significati del cibo: quando mangiare va oltre il bisogno

I significati del cibo: quando mangiare va oltre il bisogno

Lo psicologo Abraham Maslow negli anni ’50 del secolo scorso, teorizzando la sua celebre piramide dei bisogni, mise i fattori fisiologici alla base della gerarchia delle motivazioni che orientano i comportamenti dell’uomo. La fame, la sete e il sonno sono essenziali per la sopravvivenza fisica e, una volta soddisfatti, ci permettono di spostare l’attenzione su bisogni secondari e di passare così ad un gradino più elevato della struttura gerarchica.

Per garantirci la sopravvivenza, infatti, sentiamo il bisogno di assumere il corretto apporto di energia presente nei nutrienti del cibo. L’intestino lancia segnali di “fame” che raggiungono il sistema nervoso centrale, dove vengono elaborati e tradotti in particolari risposte alimentari: cosa e quanto mangiare per ristabilire l’adeguato equilibrio energetico e mantenere il corretto funzionamento dell’organismo.

E’ evidente, pertanto, che la fame sia un istinto che plachiamo fin dalle prime battute della nostra vita. Da neonati, infatti, possediamo già l’innata capacità di ascoltare il nostro corpo e di sintonizzarci con esso: “sentiamo” il bisogno di nutrirci e comunichiamo questa necessità attraverso il pianto, cessando di lamentarci appena siamo sazi. 

Ma l’esperienza dell’allattamento non è soltanto la risposta materna ad un bisogno fisiologico del neonato: dietro tale gesto si celano emozioni, sensazioni, sorrisi e giochi di sguardi che fortificano il legame madre-figlio e che, allo stesso tempo, creano le basi per la costruzione delle sue relazioni affettive adulte. Il latte diventa simbolo di nutrimento fisico ed emotivo necessario al completo sviluppo del bambino.

In sintesi, come riconosciuto dallo psicoanalista B. Bettelheim, l’allattamento è “l’evento centrale dell’esistenza infantile, il mattone fondamentale su cui, se tutto va bene, il bambino costruirà la sua fiducia in sé stesso, nelle persone significative della sua vita e per estensione nel mondo.”

Crescendo, la casa diventa il primo luogo in cui impariamo a mangiare. “Non si lascia niente nel piatto” è una delle tante convinzioni sul cibo e sulle abitudini alimentari che circolano tra le mura domestiche e che, di conseguenza, contribuiscono ad influenzare il rapporto del bambino con il cibo; tali meccanismi scaturiscono a loro volta da condizionamenti familiari e dalla storia di vita di ciascun genitore.

Nel corso dell’infanzia il cibo può essere utilizzato come mezzo di consolazione nei momenti di disagio emotivo. Può accadere, infatti, che i genitori si servano del cibo per alleviare le prime frustrazioni del figlio che piange o fa i capricci, indipendentemente dal suo reale bisogno di nutrimento. Il bambino, riconoscendo l’associazione mentale “cibo = gratificazione”, impara a rifugiarsi in biscotti, merendine, patatine e altri alimenti industriali ricchi di zuccheri semplici, tipicamente scelti per ricercare una immediata sensazione di buon umore. Il cibo riesce così a placare temporaneamente il disagio emotivo provato dopo un’esperienza dolorosa, come la prima caduta dalla bicicletta o il litigio con il compagno di giochi, diventando uno strumento con cui trovare costantemente conforto nel corso della vita, di fronte a situazioni complicate.

Il bambino, una volta diventato adulto, utilizzerà il “comfort food” per ridurre lo stress dopo una giornata lavorativa particolarmente intensa, per riempire il tempo in cui si annoia, per trovare sollievo dopo un acceso litigio con il partner. In queste situazioni, il cibo perde la sua funzione primaria di nutrimento a scapito della sua proprietà di riuscire a compensare un’esperienza spiacevole, fornendo immediata gratificazione e contrastando le emozioni negative appena percepite.

Pensando all’emozione di cenare con il partner, alla felicità di celebrare una ricorrenza, alla convivialità del pranzo domenicale in famiglia, alla condivisione di un momento disteso tra colleghi…  ritroviamo anche una connotazione fortemente positiva legata al mangiare: l’elemento comune di questi momenti di tranquillità e socializzazione, è il cibo!

“Mi piace lo spirito del ritrovarsi, la convivialità senza fronzoli, la presenza dei fiocchi di neve, quella delle mura spesse, tenendo in mano un bicchiere di vino per un paio d’ore di assoluta serenità.”

Col passare del tempo abbiamo scoperto che il cibo non è solo un mezzo per soddisfare un bisogno fisiologico ma racchiude i momenti della nostra vita, ci racconta chi siamo e da dove proveniamo, descrive, attraverso la moltitudine di significati che ciascuno di noi gli attribuisce, quali esperienze abbiamo vissuto.

Virginia Woolf ci offre la fotografia di un momento gioviale, in cui il cibo riempie lo spazio e il tempo dei commensali accompagnandoli durante le loro conversazioni e rafforzando i legami sociali ed affettivi. Nella frenesia della vita di oggi, sempre di corsa tra lavoro, commissioni e scadenze tendiamo, per necessità, a sottovalutare la piacevolezza del pasto come momento per scandire la giornata: gli unici momenti in cui ci concediamo una ricca e appagante “mangiata” sono le giornate non lavorative e le festività.

Conserviamo però le tradizioni, i valori e le emozioni: chi di noi ha dimenticato il piatto forte della nonna, i profumi che affollavano la sua cucina, i gesti con cui sapientemente manipolava e mescolava gli ingredienti? Il vivido ricordo di quei momenti felici chiede di riproporre le ricette della tradizione quando cuciniamo per un evento importante e, così facendo, tramandiamo la storia della nostra cucina di generazione in generazione.

“Siamo quello che mangiamo”, diceva il filosofo Ludwig Feuerbach.

Insomma, il cibo è lo specchio del nostro passato, del nostro presente e del nostro futuro.

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